Ci sono dei cattivi senza scrupoli che, pur di non rinunciare a un solo dollaro di profitto, pompano come dannati i combustibili fossili. Questa è la spiegazione più semplice che si può dare della crisi climatica e magari qualche fondamento ce l’ha. Penso però che la situazione sia più complicata di così. Lo penso da un po’, certo, ma ancor di più dopo aver visto un annuncio a pagamento pubblicato su Il Sole 24 Ore il 3 dicembre scorso. Precisamente, questo annuncio.
La faccenda, in sintesi
Soprattutto nel Nord del pianeta, si mangia molta carne, che ci si procura allevando animali (sì, c’è anche la caccia ma credo sia marginale). Ogni giorno, in allevamenti e mattatoi, vengono uccisi 900.000 bovini e 202 milioni di polli. Sono numeri impressionanti, ed è logico che qualcuno abbia cominciato a chiedersi ‘ma è una cosa giusta?’. Vuoi per rispetto degli animali stessi, vuoi per difendere il clima (gli allevamenti producono un sacco di gas serra).
E quindi si cercano alternative alimentari che annullino o almeno diminuiscano il ricorso agli allevamenti. Un’alternativa è il vegetarianesimo, un’altra è il veganesimo e a queste due, di recente, se ne è aggiunta una terza: continuare a mangiare carne ma non quella proveniente dagli allevamenti. È possibile, infatti, produrre in laboratorio la stessa sostanza nutritiva che si ricava allevando e ammazzando animali o andando a caccia. È la carne coltivata, così va chiamata così, come spiegato in questo episodio di Clorofilla, che spiega anche di che si tratta (per chi vuole leggere e non ascoltare, c’è questo articolo su Wired).
Una strana legge
L’idea della carne coltivata a me sembra interessante. Siamo talmente abituati a mangiare carne che smettere di farlo può non essere facile, proprio perché le abitudini hanno una grande forza. L’idea, però, ha trovato subito molti nemici. Come nasca questa opposizione lo ricostruisce la senatrice a vita Elena Cattaneo, farmacologa e biologa di fama internazionale. L’opposizione alla carne coltivata sfocia in una legge che, in sostanza, vorrebbe vietare la carne coltivata in Italia. Scrivo vorrebbe perché la legge difficilmente impedirà alla carne coltivata – se mai verrà prodotta e messa in commercio – di arrivare in Italia (una situazione un po’ bizzarra, spiegata in questo articolo de Il Gambero Rosso) .
Torno all’annuncio su Il Sole 24 Ore. Come si può leggere, trattasi di un ringraziamento al Governo e a chi in Parlamento, ha sostenuto questa legge, seguito dai loghi delle associazioni che, appunto, dicono ‘grazie’ ai politici. E a me ha colpito vedere tra questi marchi quelli di associazioni per la difesa della natura e del clima.
Due presenze inaspettate
Più di tutte, mi hanno colpito le presenze de il Kyoto Club e Slowfood. La prima è un’attivissima organizzazione che lotta contro la crisi climatica. Sul suo sito si trovano documenti e informazioni preziose, anche su quanto l’agricoltura e dunque l’allevamento di animali sia responsabile del cambiamento climatico.
Slowfood è, forse, ancora più famosa ed è un’associazione che dichiara il proprio impegno per l’alimentazione di qualità, rispettosa dell’ambiente e degli animali. E il primo motivo per cui è contraria alla carne coltivata è di tipo culturale. Si legge sul loro sito:
«Il cibo è cultura, non è un semplice carburante per far funzionare l’organismo, somma algebrica di proteine, grassi e carboidrati. Con la carne coltivata si perderebbe definitivamente il legame tra il cibo e il luogo in cui viene prodotto, le conoscenze e la cultura locali, il sapere e le tecniche di lavorazione».
Ci sono altre motivazioni a sostegno del ‘no’ di Slowfood alla carne coltivata ma la prima dell’elenco – e la più argomentata – è proprio quella culturale. Che ci possa essere cultura nel modo con cui si cucina, nelle ricette, persino nel modo con cui il cibo si porta in tavola, riesco a capirlo. Ma che tipo di cultura c’è nell’allevare degli animali con il solo scopo di ucciderli e mangiarseli?
È tutta colpa dei ‘cattivi’?
Riassumendo, la produzione di carne coltivata è ancora in fase di studio, non sappiamo dove porterà. La possibilità che determini benefici sia dal punto di vista del clima, sia da quello del benessere degli animali sembra alta ma, nonostante questo, in Italia si è levato un muro che, come scrive la professoressa Cattaneo sempre nell’articolo citato, non ha fondamenta scientifiche.
In altre parole, è stato piazzato un ostacolo di fronte a un processo di transizione ecologica – quello che dovrebbe portarci a consumare meno carne di allevamento – e a piazzarlo non sono state le industrie di petrolio, gas e carbone ma vari realtà stimate e famose, il cui primo obiettivo dichiarato è la difesa di ambiente e natura.
Grande è la confusione, se non sotto il cielo, almeno nella mia testa.
Daniele Scaglione